Il Qi affonda nel dantian. Yi muove il Qi, il Qi muove il corpo.
E’ possibile affrontare lo studio e la pratica del Taiji Quan dando per scontata l’esistenza di cose che non conosciamo, che non sappiamo definire e che non sentiamo? Nessuno ha mai visto il Qi; nessuno ha mai visto il dantian; Yi può essere tradotto in molti modi: il più comune è intenzione, termine che nella nostra lingua rappresenta la prefigurazione di un atto, l’intenzione di e si coniuga ad un fine, scivolando in concetti limitrofi come determinazione, volontà.
La nostra tradizione di pensiero occidentale ci insegna che ciò che non sappiamo definire semplicemente non è o forse non è ancora, altrettanto probabilmente non sarà mai. Le forme di conoscenza pre-filosofiche e pre-scientifiche di ogni luogo e di ogni tempo, tra queste il Taiji Quan, ci insegnano un’altra cosa altrettanto importante: ciò che non è esperienziato semplicemente non è o forse non è ancora, altrettanto probabilmente non sarà mai e, comunque, non ha la possibilità di emergere alla ragione e al linguaggio, se non come chiacchiera.
In ogni caso, in una fase iniziale dello studio e della pratica del Taiji è facile inciampare nel famoso dubbio iperbolico di Pascal, ovvero nell’interrogazione radicale sul senso stesso dell’oggetto del nostro studio.
Ciò che ci viene trasmesso con il linguaggio del resto non ci aiuta: Yi, Qi, Jing, Shen, Tao sono tutti termini polisemantici, così come prana per i classici indiani o pneuma per i classici greci, ovvero espressioni che non si lasciano imbrigliare in una definizione univoca, che sfuggono alla cattura del linguaggio e richiedono una serie di definizioni per tentare di coprirne il campo semantico.
Chi come me si considera figlio di Socrate, Spinoza ed Hegel prima che di Lao Tse, non si stupisce di fronte a questo disorientamento, alla circolarità di questi concetti (ogni significato che viene attribuito ne presuppone altri fino a tornare a quello di partenza che, comunque, non può essere definito), in quanto il problema di ciò che non può essere definito è vecchio come l’uomo e ha a che fare con l’Origine (Dio, Fuoco, Acqua, Apeiron/Wu chi, …) a partire dalla quale noi produciamo e riproduciamo il mondo nel pensiero.
Quindi noi iniziamo una pratica ascoltando parole indefinibili, leggendo cose incomprensibili, facendo cose perché così ci viene detto di fare… firmiamo un assegno in bianco intestato al Taiji: o siamo molto fiduciosi o siamo dei cretini e spesso il confine tra queste due condizioni dell’essere non è così netto.
Parentesi: possiamo chiamare sapienziali le forme di sapere pre-filosofiche e pre-scientifiche, quelle dell’identità tra macrocosmo naturale e microcosmo sociale e individuale (il Taiji è una di queste), quelle al cui centro c’è la pratica come forma di conoscenza esperienziale, quelle trasmesse essenzialmente attraverso i maestri.
Qui fortunatamente si accende una luce: firmiamo l’assegno in bianco (si spera solo metaforicamente) perché vediamo i principi e le potenzialità di una disciplina incarnati nel maestro; non conosciamo, non abbiamo coscienza ma entriamo in contatto con un essere in carne ed ossa che è qualitativamente diverso da noi e quella differenza qualitativa, ragionevolmente, la imputiamo ai principi della disciplina che vediamo incarnati. Vero, così come è vero che i maestri sono pochi e i ciarlatani sono tanti, soprattutto in questi tempi di mercificazione globale, così come è vero che esistono le illusioni, le figurazioni mentali, la suggestione, così come è vero che “questo è vero perché funziona” è un criterio molto scivoloso. In pratica per certe discipline, se non impossibile, è molto ma molto complicato prescindere da un maestro, ma nessun maestro è una polizza assicurativa a copertura totale e dobbiamo mettere in conto il rischio che dopo anni di pratica, oltre ad un corpo più resistente, una maggior sicurezza, abilità e determinazione, tutti risultati conseguibili attraverso qualsiasi disciplina corporea praticata con dedizione, potremmo ritrovarci con un pugno di illusioni e di auto-inganni. Alla faccia del Qi e del Tao.
Altro elemento critico: il Taiji Quan è una disciplina che si pretende sistemica, che si offre come un Tutto e, banalmente, il tutto è qualitativamente superiore alla somma delle sue parti, ha proprietà che emergono solo se tutte le sue componenti entrano in relazione sistemica; noi che impariamo fin da piccoli a separare per conoscere, siamo in grado di integrare tutte le nostre facoltà cognitive per parlare da sistema a sistema? Ricordando tra l’altro che, nell’unità macro-micro cosmo, noi, la natura, il Taiji, saremmo la stessa cosa, condividendo gli stessi principi e le stesse regole.
Prima però di appendere le scarpette al chiodo e dedicarci alla nobile arte delle scommesse sui cavalli, occorrono alcune precisazioni.
Questi anni di pratica mi stanno insegnando che il Taiji in fondo è semplice, siamo noi ad essere complicati; anni di cattive letture mi hanno insegnato che ogni forma di conoscenza parte da un’intuizione pre-razionale, olistica per usare un termine alla moda e che la razionalità in ciò non è sminuita ma anzi esaltata in sommo grado.
Se noi sentiamo che il Taiji può darci qualcosa di qualitativamente diverso da ciò che vediamo, pensiamo, tocchiamo, ecc. quotidianamente, indipendentemente dal perché lo sentiamo, facciamo bene a immergerci nella corrente: il tempo, la pratica, un buon maestro e la nostra sincerità forse ci ripagheranno. In che modo? Purtroppo non so ancora rispondere con chiarezza.
E veniamo al senso di queste righe.
Io credo che in una fase iniziale (non mi si chieda quanto lunga) la nostra pratica non dovrebbe focalizzarsi troppo su concetti come Qi, Yi, ecc., i quali di solito ci vengono dati come presupposti: ascoltiamoli ma teniamoli sullo sfondo; le case, solitamente, non si costruiscono a partire dai tetti.
Noi possiamo invece facilmente assumere che , come esseri che vivono su un pianeta chiamato Terra, siamo sottoposti ad una forza che alla terra ci lega (gravità) e che questa forza non ci schiaccia al suolo in quanto dotati di una struttura che le consente di attraversarci scaricandosi al suolo senza schiacciarci.
Io conosco bene questa sensazione avendo un’ernia del disco: quando questa si acutizza è come se la mia struttura si rompesse in un punto e precipitasse, come se la forza di gravità non attraversasse più il corpo e, a causa di ciò, lo schiantasse al suolo.
Ora, se stiamo in piedi, è perché siamo dotati di una struttura, solo che, chi più chi meno, è piuttosto storta e il nostro primo compito è migliorarla raddrizzandola, allinearla secondo le regole canoniche del kung fu, con particolare attenzione alla regola dei 3-5 archi.
Questo allineamento strutturale è più facile a dirsi che a farsi, ed è tanto difficile che non deve neanche diventare un’ossessione: abbiamo a che fare con una disciplina sistemica, se ci fissiamo su una cosa irrigidiamo il sistema… in un certo senso dritto e rigido è proprio di qualcosa di morto.
Ma poniamo che la nostra struttura tenda progressivamente ad allinearsi: ciò è come dire che la forza di gravità potrà attraversarci meglio e, attraversandoci, portare qualcosa di noi con sé. In realtà questo processo di discesa sarà già iniziato con il lavoro sull’allineamento strutturale: un punto idealmente protende verso l’alto (la sommità del capo), tutto il resto si rilascia verso il basso (articolazioni, muscoli, …).
Da millenni l’uomo sa che perché una costruzione stia su deve avere una struttura tale da ripartire il peso dei materiali e, soprattutto, tale da scaricare questo peso per terra; se ogni parte della costruzione dovesse sostenere (anziché condurre) il peso di quella superiore, avremmo una struttura rigida che, per non crollare, richiederebbe un uso abnorme di materiali per sostenere pesi che non possono scaricarsi, quindi un uso spropositato di forze per porre in equilibrio le forze stesse.
Ciò che l’uomo sa per costruire una casa o un ponte, ovviamente non sa per sé.
Una struttura allineata consente al nostro peso di scivolare verso i piedi e dai piedi di scaricarsi a terra dando vita ad una sorta di legame con essa. E questo è buono e varrebbe già il prezzo del biglietto.
Ma anche la nostra mente ha un peso? E le nostre emozioni? Io credo di sì.
E’ il peso dei pensieri e delle emozioni che ristagnano, o meglio il peso dei pensieri senza radice e senza scopo, o meglio ancora con una radice fantasmatica e uno scopo illusorio, delle cicatrici della nostra esperienza esistenziale, dei nostri sentimenti che girano a vuoto, rimuginazione, tristezza, euforia, paura, colpa e quant’altro, che si sedimentano e diventano il nostro modo di affrontare la vita, tanto che spesso diventa impossibile anche solo immaginare un’esistenza libera dai nostri blocchi emotivi.
Mi riferisco, ahimè, alla quasi totalità dei nostri pensieri, congetture, riflessioni, sentimenti, emozioni, che da sostanza sottile diventano materia greve.
Ebbene, se tutto ciò ha un peso, non possiamo immaginare che anche questa “materia” possa scivolare verso il basso e attraverso i piedi scaricarsi a terra?
Questa è la prima indicazione che mi sento di dare, il primo “duro lavoro”, perché in realtà mediamente non scende proprio un bel niente: noi sosteniamo ogni cosa e in ciò disperdiamo la nostra forza, costruiamo enormi pilastri al centro di saloni già dotati di mura portanti per paura che il soffitto ci crolli sulla testa e nel fare ciò indeboliamo la vera struttura portante, diciamo al mondo “passa di qua, perché di qua ti posso sostenere” anziché “passa di là, perché di là puoi scorrere e non far danni” e, nel fare ciò, rischiamo sempre di venirne schiacciati, potendo sostenere solo il sostenibile ma non l’insostenibile.
Per questo il Taiji è semplice: ci chiede di lasciar scorrere e noi invece, che siamo complicati, sosteniamo e tratteniamo.
Per questo il Taiji è pericoloso: la pratica ci rafforza, ma rafforza la nostra illusione di sostenere o la nostra capacità di lasciar scorrere?
Il Taiji richiede poche cose: sincerità e duro lavoro sono due di esse; la sincerità ci serve a non cadere da un’illusione ad una peggiore, per noi stessi e per chi ci sta vicino.
Rilasciare verso il basso perché il peso possa trasferirsi a terra è un percorso ad ostacoli, solo che questi non vanno saltati e neanche abbattuti, vanno sciolti: rilasciare è “non trattenere”, non “abbassare”, che sia una spalla, il petto o il respiro. E’ un percorso veritativo perché, scendendo, il peso di ciò che ha un peso passa il vaglio della mente, della bocca, dei polmoni, del cuore, dello stomaco e così via, che rilasceranno la loro componente di peso fino ai nostri piedi, e da questi fino a terra.
Ancora una questione che pongo con delicatezza: ciò che scende verso il basso, abbiamo detto, incontra ostacoli, porte chiuse di cui non necessariamente abbiamo coscienza; per scendere, tutto scende e questo è inevitabile, ma trattandosi di un flusso, dove c’è un ostacolo sufficientemente forte, il flusso lo aggira e noi perdiamo coscienza del suo percorso naturale. Quegli ostacoli sono parte di noi stessi e si stratificano e sostanziano negli anni della nostra esistenza: prendere coscienza di ciò che riusciamo a non trattenere ci aiuta a identificare i punti in cui invece tratteniamo, e l’invito è quindi a godere delle sensazioni positive della nostra pratica anziché ossificarci sulle difficoltà, e ci aiuta a trovare le porte chiuse; questa è la parte più difficile: aprirle è questione di lavoro; a noi la scelta se aprire una porta chiusa da anni con un calcio o cominciare con oliarne i cardini.
E qui arrivano i problemi: “Ok, tutto bello, ma come si fa?” Questa è la domanda che può spezzare in due un insegnante. Perché non esiste un come si fa e, io credo, bisogna guardarsi bene da chi predica i come si fa nel Taiji o in altre discipline che potenzialmente possono farci mettere il naso dentro noi stessi. Come si fa è tecnica e la tecnica è artificio. La tecnica, che Dio la benedica, lasciamola ai chirurghi e a chi costruisce i ponti, cioè a chi fa cose che, in un certo senso, non esistono in natura: il Taiji dice di essere la natura e la natura non fa, è. La tecnica applicata al Taiji è le sue forme, il Tuishou, il Qi Gong, esercizi che non esistono in natura e che sono stati creati per trasmettere dei principi, quindi a chi mi chiede come si fa, io non posso che rispondere: pratica il Qi Gong, la forma, gli esercizi in coppia, prendi esempio dal tuo maestro e sii sincero con te stesso, perché questa è l’unica “tecnica” che conosco.
Ultima questione, per me decisiva, che espongo con tanto maggior delicatezza, quanto più le mie certezze / esperienze vacillano: ciò che scende in qualche modo risale e ciò che risale attraverso di noi è in un certo senso più sottile di quanto abbiamo rilasciato verso il basso, è più puro e tende a portare verso l’alto e in ciò, ahimè, inciampa in altre nostre “cosucce” che progressivamente tendono ad affiorare alla nostra coscienza. Cose belle e cose brutte di noi.
Il mio consiglio è, ancora una volta, essere sinceri e non trattenere, in più… non aver paura. E praticare, praticare e ancora praticare.
Torno sempre alla sincerità della pratica, che è una delle tante importanti cose che ho imparato dal mio maestro e il cui senso profondo ho impiegato anni a comprendere, ma questo è un mio limite.
Questi spunti per la pratica credo siano buoni: in qualche modo con questo lavoro stiamo creando un vuoto, cosa che di per sé è già enorme, e non ci siamo ancora mossi! Il Taiji è movimento e trasformazione: l’invito è, nuovamente, a non focalizzarsi troppo su un solo elemento (quindi neanche su quanto ho fin qui scritto!) e accettare che la nostra pratica del Taiji sia più o meno storta, trattenuta, rigida, moscia, affollata di pensieri e blocchi come se si trattasse, come in realtà è, di fasi naturali del suo sviluppo.
Per ora credo possa bastare.